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La dignità dentro

Progetto multimediale di storytelling che racconta come il lavoro sia un fondamentale strumento di rieducazione per coloro che devono scontare una pena.

Realizzato per conto di The European House - Ambrosetti, con il patrocinio del Ministera di Giustizia e in collaborazione con la cooperativa sociale bee.4 - Altre Menti.

"LA DIGNITÀ DENTRO" racconta dieci storie di vita quotidiana dietro le sbarre. Dieci storie molto diverse tra loro, ma tutte accomunate dal lavoro e da come il lavoro abbia influito sul vissuto quotidiano dei dieci protagonisti, aiutandoli nel percorso rieducativo e rendendo loro la dignità.

  

Liliana, 34 anni

Liliana è una donna risoluta, meticolosa nella sua risolutezza, di quelle che difficilmente si perdonano qualcosa. A guardarla non si direbbe, anzi di fronte mi si presenta una donna dai tratti dolci, rotondi, gli occhi di un azzurro profondo e pulito, il sorriso aperto, avvolgente, e non ci si aspetterebbe certo la durezza che si avverte sin dalle prime parole che scambiamo.

Tra le pieghe delle conversazioni scorgo uno spirito libero, dai tratti quasi adolescenziali, di quelli che magari hanno albergato in molti di noi, solo che ad un certo punto della sua vita, questo spirito libero con i capelli rasati dalla macchinetta sulla nuca e un piercing sulla lingua, ha sbagliato, ha commesso un crimine e ora si trova rinchiuso in carcere. Le vere sbarre, per Liliana, però sembrano essere quelle della sua stessa esistenza, disegnate da un passato che la bracca quotidianamente, e l’espiazione passa soprattutto attraverso l’analisi di quel passato tragico, attraverso la comprensione più intima di quello che è successo durante una notte efferata e che un tribunale ha giudicato senza attenuanti.

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Lauro, 43 anni

Ne ha ovunque. Sula fronte, attorno agli occhi, sugli zigomi, sul mento, sulle guance. La prima cosa che arriva di Lauro sono loro, i tatuaggi. Poi arrivano i muscoli, che una maglietta blu di cotone a maniche lunghe fatica a contenere. Prima che possa armare con il luogo comune la mia embrionale impressione che ho di lui ecco che arriva anche qualcosa che mi spariglia le idee. 

Ecco che arrivano le maniere educate e i modi gentili, che Lauro spinge in avanti con un sorriso che appare quasi timido e con una voce affabile. Mi basta questo briciolo d’incontro per capire che con Lauro bisogna essere scaltri e bisogna sapere osare e andare oltre quei tatuaggi e oltre quei muscoli. Bisogna sapere andare oltre il luogo comune, se si intende cogliere anche soltanto una manciata autentica di quello che è l’uomo che ho di fronte. 

«So cosa pensano quelli fuori…» - esordisce così Lauro - «Ma che te ne importa di raccontare le storie di quei pezzi di merda, tanto poi, quando escono, tornano a fare quello che facevano prima.»

Poi mi guarda e si fa tremendamente serio e devo ammettere che la cornice di quegli inchiostri eterni intrappolati sotto la pelle rende la sua espressione ancora più solenne e un po’ mi spaventa. 

«Con me hanno perso un cliente.» - dice, riferendosi al fatto che lui, in galera, è determinato a non tornarci più. Piuttosto va a fare il lavapiatti, mi confessa, e immediatamente, dopo averlo detto, si scusa con i lavapiatti.

 

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Gianluca

«Ti faccio una faccia da criminale.»

Esordisce così Gianluca quando gli dico che siamo pronti per scattare le prime foto. Mi fissa giusto per qualche istante. Lo sguardo torvo, la posa maschia. Poi scoppia a ridere e mi regala una faccia che forse non sarà da criminale, per dirla con le sue parole, ma di certo è molto sincera, proprio come lo è la storia che mi sta per raccontare.

Non si ricorda quanti anni ha, mi dice poi, e aggiunge che continuerà a non ricordarselo fin tanto che rimarrà in carcere.

Due uscite che mi mettono in guardia, per così dire. La nostra conversazione promette di essere più simile ad un giro sulle montagne russe. 

«Che lavoro facevi prima di entrare in carcere?» 

«Il criminale.» - risponde lui e lo fa con un’espressione quasi beffarda. Ecco le montagne russe. 

«Fatto salvo un paio d’anni, quando sono diventato padre, ho sempre e solo fatto il criminale… ho commesso reati.»

Gianluca parla lentamente, a volte pare quasi sussurrare ed è un tratto singolare, inaspettatamente elegante in un criminale di oltre cento chili di muscoli. Soprattutto è disarmante cogliere il distacco con il quale racconta del suo passato.

Una tuta da pugile della Leone, i capelli tagliati cortissimi, i lineamenti duri, caparbi. Quasi due metri per almeno cento chili e un’eloquenza che è seconda soltanto al disincanto con il quale Gianluca parla. Mi confonde e forse, un po’, mi plagia anche. Non riesco a comprendere se la persona pacata, a suo modo sorniona, sia ancora quel criminale o se ho di fronte una persona nuova, che si guarda indietro e vede il criminale di allora. Confesso che Gianluca sta mischiando le carte sul tavolo della mia percezione.

 

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Nello, 50 anni

C’è un luogo comune sui carcerati e prima di cominciare questo progetto, molti mi avevano messo in guardia. Dentro sono tutti innocenti e si sentono vittime di errori giudiziari o complotti. 

Di per sé, il fatto che le patrie galere custodiscano soltanto degli innocenti, mi tornava piuttosto poco credibile, oltre che falso. Restava il fatto che mi aspettassi che, prima o poi, questo luogo comune all’interno delle conversazioni che tenevo con le mie storie sarebbe tornato. Non è mai accaduto. Nessuna delle mie storie ha mai citato questo luogo comune, anzi, senza nessun orgoglio, tutti hanno sempre riconosciuto di aver commesso dei crimini e che il fatto di ritrovarsi dietro le sbarre ne fosse la normale conseguenza, persino giusta, di ciò che avevano commesso. 

Nessuno si dichiarava innocente o vittima di un errore giudiziario.

Nello, al contrario degli altri, la sua innocenza non la tace. Ci tiene a metterlo in chiaro da subito: lui non ha fatto niente.

Me lo sono detto sin dall’inizio. Il mio approccio sarebbe stato quello di tenere separate le persone dai reati da loro commessi e concentrarmi semplicemente sulle loro storie, evitando il più possibile di entrare nei dettagli processuali, cercando di sottolineare il rapporto tra carcerato e lavoro in carcere. Con Nello, però, faccio fatica a tenere fede al mio proposito originale. 

Deve scontare una pena definitiva di ventidue anni per omicidio, ma non perde tempo: Nello si dichiara innocente. 

«Sono sincero.» - così esordisce - «Quando prima sentivo parlare di certi reati, anch’io dicevo buttate via la chiave.» 

Mi spiazza. Con Nello la distanza tra i dicotomici dentro e fuori e buoni e cattivi, si fa quasi impalpabile, si assottiglia, proprio come pare farsi sottile l’aria che respiro dentro questo stanzino, mentre chiacchiero con lui.

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Edoardo, 31 anni

Edoardo è uno normale. Io potrei essere lui, con qualche decina di anni in meno. Lui potrebbe essere chiunque di noi. Potrebbe essere nostro figlio, nostro nipote, il figlio del vicino di pianerottolo, un nostro parente.

Edoardo è il tipico bravo ragazzo della porta accanto, della villetta accanto, del quotidiano accanto, di quelli che hanno la faccia da bravo ragazzo, i modi da bravo ragazzo e gli abiti da bravo ragazzo. 

Sì, Edoardo è il bravo ragazzo in tutto e per tutto. Beh, forse no, visto che ci incontriamo dentro il perimetro segnato dalle mura di un carcere e dopo la sentenza di un tribunale che lo ha riconosciuto colpevole a scontare una pena di dieci anni.

Mi siede di fronte nella sua camicia azzurra a righe fresca di bucato, dietro i suoi occhiali dalla montatura sobria, e quando ci spostiamo lungo i corridoi del carcere, sostando davanti ai reparti, per scattare qualche foto, quella normalità mi arriva ancora più perturbante. Chiacchiera con il gusto di chi ama parlare, Edoardo ci sa fare con le parole. 

Ha studiato, si è diplomato in un istituto superiore ad indirizzo commerciale. Poi ha fatto le prime esperienze lavorative, come tanti altri ragazzi della sua età, assunto temporaneamente in stage. 

«Per un po’ ho fatto anche il rappresentante…» 

Insomma, se non fossimo all’interno di una casa di reclusione, Edoardo sarebbe davvero il prototipo del ragazzo normale, nato e cresciuto ai bordi della grande città, figlio unico di genitori, anch’essi del tutto normali, con i valori di una famiglia normale e di fronte un orizzonte di vita normale. Però siamo in un carcere e dunque qualcosa si dev’essere incrinato in questo scenario dove tutto è apparente, assolutamente normale.

Come tanti altri adolescenti simili a lui, Edoardo cresce inseguendo il sogno della vita comoda. Desidera la macchina bella, l’orologio costoso, gli abiti firmati, ma abbastanza in fretta comincia a capire che lavorare non gli va particolarmente a genio. Fin qui, però, è ancora tutto piuttosto nella media. La chiave di volta è un cappottino di cachemire. Ce l’ha addosso un amico ed Edoardo comincia a rimuginare su quanto tempo gli sarebbe servito per potersi permettere anche lui quel capo firmato. Troppo, si risponde, mentre l’amico si bea di averci messo una mezz’ora o poco di più. L’invidia, si sa, è un sentimento normale ed Edoardo è un ragazzo normale. L’amico gli indica la strada e lui la segue, porta oltre la linea sottile che divide i buoni dai cattivi, porta al crimine, passando per il furto.

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Naoual, 28 anni

C’è un’innocenza che non si contrappone alla colpevolezza, è una sfumatura che ha a che fare con la spensieratezza, con la leggerezza, con l’allegria, è quell’innocenza che va a braccetto con l’adolescenza, ebbra di ideali un po’ infantili e di tutti quei per sempre che spesso svaniscono con l’età.

Sono convinto che sia soprattutto questa l’innocenza che Naoual ha perso per sempre, quando è finita in manette.

Aveva un lavoro che le piaceva a Francoforte, per il quale si era diplomata, faceva l’infermiera. Aveva un fidanzato che amava. Sognava di sistemarsi, di metter su famiglia. Non subito, magari più avanti, era ancora presto. Aveva voglia di divertirsi e la sensazione che il mondo fosse lì, a portata di mano. Si sentiva felice. Si sentiva giovane.

In realtà questo Naoual non me lo dice. Sono io che lo immagino. Mi viene facile farlo, guardandola mentre la fotografo, con la sua felpa da adolescente. Anche se Naoual ha poco meno di trent’anni, è una di quelle donne che sembrano non voler mai abbandonare l’adolescenza.

Mi immagino Naoual alle prese con i sogni di chi ha la sua età, con la vita di chi ha i suoi anni.

Il lavoro, la famiglia, gli amici, l’amore.

L’amore la rovina. L’amore le restituisce il diritto a sperare. 

L’amore per il fidanzato l’ha plagiata, le ha scardinato la vita, l’ha spinta a commettere il reato per il quale Naoual sta pagando con la reclusione. L’amore della sua famiglia le ha invece teso la mano, impedendole di sprofondare oltre, aiutandola a guadagnarsi una seconda possibilità.

Questo è Naoual a raccontarmelo, non me lo sto immaginando io.

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